UN’ESPERIENZA TRA I TIFONI un altro racconto del nostro socio Giovanni Cazzato

-T I F O N I-

Era il terzo giorno che si scaricava “ scrap iron”, cioè ferraccio ; residuato bellico, caricato in vari porti del Nord Inghilterra.
Il giorno prima, s’era alzato un forte vento nella baia di Yokohama, e parecchie navi avevano “arato “ cioè erano state trascinate, un po’ lontano dal punto di “ fonda”. Alcune s’erano anche urtate. La nostra nave aveva tenuto bene, anche perché, ancora abbastanza carica e dunque poco esposta alle raffiche di vento. Ricordo che all’arrivo, il pilota , sapendo che potevamo restare un bel po’ di tempo per scaricare, aveva fatto dare fondo all’ancora di sinistra e poi ormeggiare alle boe, a prua e a poppa, con molti cavi, gomene ed anche cavi d’acciaio.
L’indomani mattina era passata una motovedetta che, col megafono, in un inglese abbastanza comprensibile, aveva avvisato ogni nave in rada che nel pomeriggio un tifone avrebbe interessato la baia dove eravamo, perciò si provvedesse a rinforzare gli ormeggi e di stare in allerta. Il Comandante aveva fatto dare fondo anche all’ancora di dritta ed assicurato che gli ormeggi fossero tesi bene ed in maniera uniforme. Dal pomeriggio e sino all’indomani notte non ci furono operazioni, né tanto meno si vedevano barche transitare a noi vicino, eccetto qualche rimorchiatore e vedette militari senz’altro chiamate per motivi di emergenza.
Allora molte navi da carico erano obbligate a compiere le “operazioni” in rada. C’erano tantissime piccole imbarcazioni adibite agli “ allibi” che facevano la spola tra esse ed i vari moli, nella vastissima baia di Tokio – Yokohama. Sebbene fossero trascorsi una quindicina d’anni, dalla fine della seconda guerra mondiale, non erano tanti i pontili funzionanti nella vasta baia, ai quali si poteva ormeggiare; il governo giapponese, giustamente, aveva preferito costruire prima le darsene per le navi passeggere e le petroliere e poi man mano stavano ultimando altri pontili per far approdare qualsiasi altro tipo di nave.
Il mercoledì sera, dopo cena, il Comandante mi chiamò e disse:
– Carmelino, domani ti recherai in Agenzia, e poi all’Istituto Idrografico inglese, per prendere le carte nautiche che ho richiesto, gli avvisi ai naviganti e gli ultimi bollettini meteo, perché, secondo le previsioni, fra un paio di giorni dovremmo partire.
Ero imbarcato insieme a Lui, come Terzo Ufficiale di Coperta, nel porto di Augusta, in Sicilia sulla nave“ GREEN LAKE”. Da Genova, ove stava la Compagnia Armatrice, sino al porto siculo avevamo viaggiato insieme, in treno, e tra noi s’era restaurata una certa “ confidenza “, specialmente da parte sua, perciò mi chiamava col diminutivo, e continuò :
-Gli scaricatori mi hanno confermato che lavoreranno questa notte e non smetteranno sino a fine discarica, perciò credo proprio, come mi hanno detto, che termineranno verso dopodomani sera tardi.
Come stabilito, l’indomani, giovedì mattina, scesi a terra con la stessa motobarca che portava gli operai, per il cambio di turno. C’era ad aspettarmi un taxi , un po’ malridotto, che mi portò in agenzia, passando per tanti vicoli e vicoletti ,tant’è vero che io non mi raccapezzai per niente, né avrei mai saputo trovare la strada per il ritorno, tanto mi sembravano uguali e ,almeno per me, senz’alcun punto di riferimento.
Una volta in Agenzia, ricevetti la posta di bordo e poi un impiegato che parlava un po’ l’inglese , mi accompagnò all’Istituto Idrografico Inglese. Nel dare l’indirizzo della nostra Società armatrice, cioè GENOVA, ci fu qualche minuto di confusione, perché loro intendevano GENEVE ( Svizzera) e solo dopo aver mostrato alcuni documenti della nave ed aver fatto un piccolo disegno dell’Italia su un foglio, finalmente fu sciolto il piccolo enigma e così ricevetti le carte nautiche, gli avvisi ai naviganti ed i bollettini meteo.
Terminate queste piccole pratiche, con tante scuse, ringraziamenti ed inchini vari, scesi in strada insieme all’uomo della nostra Agenzia ove era ad aspettarci un taxi, ancora più malridotto del precedente. Ritornati in Agenzia, l’impiegato scese e, dopo aver confabulato col tassista, mi salutò sempre con profondi inchini. Subito il tassista mise in moto e mi accompagnò al molo.
Una volta giunti, si guardò intorno e dopo, forse per assicurarsi che stavamo al molo giusto, mentre io lo rassicuravo, a gesti, che sì, era quello dov’ero sceso la mattina, indicò sul mio orologio, l’ora d’arrivo della prossima motobarca, e prese da me congedo e mi salutò con tante cerimonie.
Mi accesi una sigaretta e, per ingannare il tempo, provai a leggere i bollettini meteo. Si era nel mese di Luglio, e capii che c’era una vasta zona di Bassa Pressione nell’area ovest dell’Oceano Pacifico.
Alle 15 00 circa cominciarono a giungere a piedi o su biciclette tanti operai che avrebbero preso il “ traghetto” per andare a lavorare sulle navi. Alcuni di questi mi conoscevano, perché erano stati già a bordo e , a volte, avevo pure medicato o disinfettato loro le ferite che si erano procurate, durante la discarica del ferraccio. Questo veniva preso con mani protette solo da un paio di guanti di cotone e ammucchiato in certe imbracature, fatte di cordame, ma molto robuste e resistenti che, una volte messo sopra una certa quantità di ferraccio, venivano issate su dalle stive, per mezzo dei bighi di bordo azionati a vapore e quindi scaricate nelle zattere ormeggiate lungo le fiancate della nave.
Povera gente!! Quasi tutti, indossavano delle tute di un colore grigio scuro ed invece delle scarpe, portavano delle calze fatte di spessa tela olona, solo l’alluce era cucino e stretto a parte, perciò faceva da tenuta a tutto il piede.
Si può ben immaginare, eseguendo quei lavori, ed essendo a contatto con ferri taglienti, quanti di questi operai si ferivano, si tagliavano o subivano delle escoriazioni . Tante volte, forse per nascondere le ferite, continuavano a lavorare e, soltanto quando il loro caposquadra o capogruppo si accorgeva che sanguinavano parecchio, li faceva uscire dalla stiva perché fossero medicati. Allora, a bordo, ero il responsabile della farmacia, perciò, quando si ferivano, venivano a trovarmi e facevo del mio meglio per disinfettare le ferite con Tintura di Iodio, alcool , garze, cerotti ed a volte anche qualche compressa per alleviare un po’ i dolori.
Giunto a bordo, mi presentai dal comandante a consegnare quanto avevo ricevuto dall’Agenzia e dall’Istituto Idrografico. A cena notai che il Comandante era più taciturno del solito e piuttosto pensieroso. Era un brav’uomo di circa 50 anni d’età, molto magro, quasi ascetico, proveniente dalla Jugoslavia e residente a Savona. Forse era sfuggito alla dittatura di Tito ed emigrato in Italia, non abbiamo mai saputo niente della sua vita privata né dava adito ad alcuna confidenza. Inoltre, strano a dirsi, pur essendo dalmata, almeno così faceva intendere il suo cognome Dabirovich , era anche completamente astemio, non toccava mai un goccio di vino a tavola né alcun tipo di alcool. Una persona umile e taciturna, parlava con il l° Ufficiale, Sig . Gasparini Lucio ma ,credo , solo per i lavori , direttive o manovre varie necessarie alla conduzione della nave.
Quella sera mi esonerò da qualsiasi incarico e mi ordinò di apportare le correzioni degli ultimi Avvisi ai Naviganti alle carte nautiche che servivano almeno sino a Singapore e le correzioni varie ai Portulani ed ai volumi dei Fari e Fanali.
Ogni tanto saliva sul ponte anche lui e guardava il barometro. Lo sentii anche parlare col nostro marconista, che era nella sala radio, adiacente la plancia, sul lato dritto a poppavia. Ancora una volta mi accorsi che era un po’ turbato.
L’indomani mattina venne sottobordo una zattera che portava delle provviste di cucina e poi una bettolina con acqua potabile che la pompò nei depositi della nave ed appena terminata l’operazione,, come al solito, dovetti prendere le sonde, per verificare i metri cubi esatti che avevamo ricevuto.
Nel pomeriggio molto inoltrato terminò la discarica. I giapponesi avevano lasciato tutte le stive abbastanza ben pulite, pur tuttavia furono controllate dal 1° e dal nostromo, per verificare che non ci fossero danni eventuali arrecati durante la discarica. La nostra era una nave costruita durante l’ultimo periodo di guerra, in tutta fretta, negli Stati Uniti, le cosiddette navi fatte per “ un solo viaggio”, perché dovevano trasportare viveri ed armamenti alla Russia, passando a Nord della Norvegia. Una buon numero di queste navi furono affondate dai sommergibili tedeschi. Erano chiamate “ LIBERTY”, forse perché destinate alla Liberazione del regime nazionalfascista che imperversava sull’Europa e su buona parte del mondo di allora. Aveva cinque stive ed i boccaporti, una volta terminate le operazioni di carico o discarica, venivano chiusi con un sistema un po’ complesso: nel senso longitudinale venivano posti dei traversali in ferro, chiamati bagli. Questi avevano delle guide, nei quali erano posti dei tavoloni di legno dello spessore di cinque sei centimetri, una lunghezza di circa centoventi e trenta o quaranta di larghezza. Una volta che ogni boccaporto era così completato, veniva stesa della tela olona molto spessa che lo copriva tutto. A sua volta, questi teloni erano tesi e fissati al disotto dei bordi del boccaporto con dei cunei di tavola ben stretti e battuti a contrasto a degli spezzoni di metallo saldati a queste “ specie di correnti “ del boccaporto stesso Su questi teloni, inoltre, venivano passate delle funi, per tenere i teloni un po’ più sicuri e meno sollecitati dal vento o dalle onde che molto spesso spazzavano il ponte principale della nave. Furono ben assicurati i bighi e tutto ciò che era esposto alle intemperie.
Una volta completate le varie pratiche doganali e portuali , assicurato che tutto era in regola, furono consegnati all’ impiegato dell’Agenzia i documenti firmati e timbrati, comprovanti la sosta , le operazioni di discarica e tutte le altre notizie, dal momento dell’arrivo della nave in porto. Fu, inoltre, stabilito l’ora della partenza, in modo di avere l’equipaggio e la macchina pronta all’arrivo del pilota e degli ormeggiatori .
Il sole era già sorto da circa un’ora, quando l’ultimo cavo d’ormeggio fu recuperato e l’ancora virata; ma non la si rientrò in cubia, la si tenne sempre appennellata e pronta sino all’uscita dalla baia di Tokio in caso di qualche eventuale emergenza. Vi era una moltitudine di navi che traversavano la vasta rada in ogni direzione, dalle piccole barche da pesca alle navi sempre più grandi, a volte 5 o 6 volte maggiori della nostra. Per ordine del comandante furono messi al sicuro tutti i cavi e quant’altro era possibile nei casseri vari addetti all’uopo. Fu avvisato il personale di cucina ed il Direttore di Macchina, signor Bottala che, una volta usciti in mare aperto, avremmo incontrato mare molto grosso, perciò si preparassero a “ rizzare” quanto più possibile ed assicurarsi che non ci fossero “ oggetti “ liberi che, causa rollate, potevano recare danni.
Una volta lasciata a poppavia la rada, liberato il personale di manovra, entrammo in mare aperto. Essendo di guardia sul ponte, notai con stupore, che il Comandante tracciava verso Sud Rotta da seguire , invece che Sud Ovest. Non avevamo la girobussola. Si navigava con la Bussola Magnetica che, tra l’altro, da un po’ di tempo non veniva chiamato il tecnico per l’operazione di compensazione. Come ovvio, alla rotta vera bisognava apportare le correzioni dovute alle variazioni magnetiche. Non erano trascorse che cinque sei ore di navigazione, che già si cominciò a rollare e beccheggiare.
Venne la notte e si cominciò a sentire il vento soffiare sempre più forte e le onde aumentare di violenza ed intensità. Sino a quando montai di guardia, cioè sino a mezzanotte, si vedevano a sprazzi le stelle, sebbene il cielo diveniva sempre più fosco, e la nave aveva preso a rollare sempre più frequentemente. Quando scesi dal ponte, per andare nella mia cabina, che si trovava al ponte subito sotto a quello di comando, mi dovetti aggrappare al passamano , per evitare di cadere, tanto si rollava. Mi accesi un’altra sigaretta, e mi misi a leggere un libro , per conciliare un po’ il sonno; tra l’altro ero molto stanco ed avevo i muscoli tesi, e quando mi capitava questo, difficilmente riuscivo ad addormentarmi. Infatti ero in piedi dalle sei della mattina, e non c’era stata la solita pennichella pomeridiana perché, per ordine del l° ufficiale, avevo fatto riempire anche il “ fore peak “ cioè il deposito ubicato nella zona prodiera ed avevo controllato che tutti gli altri doppi fondi fossero completamente pieni, e questo aveva comportato di stare molto tempo per i sondaggi vari, nonché un continuo salire e scendere per telefonare nella sala macchine, e far mettere in moto le pompe di zavorra.
L’indomani, domenica, prima dell’alba, venni svegliato da un violento scossone, una impetuosa onda si era infranta contro la fiancata della nave. Dall’oblò, si notava il biancheggiare delle acque e le onde che si sollevavano sempre più. Mi vestii e, pian piano, scesi verso la saletta ufficiali e, passando vicino la cucina, vidi che il cuoco aveva sistemato delle assi di ferro attorno alle piastre , per evitare che le pentole potessero scivolare e scottare qualche persona. C’erano i bricchi per il latte, caffettiere ed altre pentole.
— Buon giorno ,Salvato’ – salutai – come va? Si balla, eh!! Speriamo che duri poco, altrimenti qua si farà la fame, perché non riuscirai a cucinare, e così ci guadagnerai pure- scherzai.
-Signò, c’è poco da scherzare, io, in questi “mari” ci sono già stato e non Le nascondo che mi hanno sempre fatto un po’ paura e….. se non fosse per il bisogno!!!. Bah! Pazienza! – continuò – se vuole, c’è la focaccia appena sfornata-
Accettai di buon grado, nel frattempo sentimmo : -Buona domenica e buongiorno a tutti, e che sia buono davvero – era Mario, il nostromo, anche lui sempre mattiniero e che si affacciava alla cucina, col viso sorridente e con modi spicci , decisi e sbrigativi.
Lucido dallo stesso momento che si alzava dal letto, una persona che emanava fiducia e sicurezza. Era prassi che verso le 06 30 egli salisse sul ponte di comando dov’era di guardia il sig. Gasparini a chiacchierare con lui e ricevere gli ordini per i lavori da svolgere durante la giornata o eventuali programmi per la manutenzione varia di cui la nave aveva bisogno.
Mentre mangiavo la focaccia, cominciarono ad arrivare altri membri dell’equipaggio. Negli anni sessanta, anche per una nave di appena 10.000 tonnellate di portata le Capitanerie di Porto obbligavano ad avere a bordo non meno di una trentina di persone d’equipaggio e sulla nostra eravamo la bellezza di 35 . Questo perché allora non esistevano automatismi e poi, il costo dei salari di noi marittimi era così basso che incideva davvero poco sulla spesa complessiva della nave. Era tutta gente abituata ad avere “il piede marino” perciò le continue rollate non è che dessero tanto fastidio ed ognuno cercava di mantenere un certo equilibrio e di aggrapparsi a qualche appiglio sicuro.
Mentre si chiacchierava, iniziarono i pronostici sulla durata di questo maltempo; chi diceva un giorno, chi due al massimo tre, ma la mia meraviglia era che si parlava con una certa noncuranza, come se fosse cosa della minima importanza. Una volta fatta colazione, andai in cabina a mettermi addosso qualcosa di più caldo e poi salii sul ponte di comando. Vi trovai il comandante, credo che fosse salito subito dopo lo scossone che aveva svegliato me e tanti altri a bordo. Dato il buongiorno, andai a prendere il caffè. Quello che si faceva sul ponte, era il migliore, perché fresco e poi fatto con la caffettiera Moka, che per quei tempi era tutto dire. Sempre tenendomi aggrappato a qualcosa, tanto si rollava, sentii il Comandante, che, rivolgendosi al 1° Ufficiale, diceva:
– Signor Gasparini, bisogna mettere in mare il” solcometro “ per sapere almeno la velocità stimata della nave .Difficilmente oggi sarà possibile prendere qualche Retta di Sole. Almeno così avremo una vaga posizione nave. –
Il cielo era completamente coperto. Nuvole basse , spinte da un forte vento di sud ovest, passavano ad una velocità sostenuta Credo che ci fosse appena un miglio di visibilità, ma che si riduceva a poche centinaia di metri al passaggio dei forti e spessi piovaschi che passavano su di noi. Verso le nove entrò nella sala nautica il radiotelegrafista , sig. Barletta Giacomo : – Comandante, ecco l’ultimo bollettino Meteo, inviato dalla stazione meteorologica di Yokohama,- disse, porgendo un foglietto.
Quasi con un moto d’impazienza, il Com.te lo prese e si avvicinò al tavolo delle carte nautiche per controllare le posizioni e, subito dopo, andò a vedere il Barografo di bordo. Il tracciato che era stato in discesa sin dalla partenza, da qualche ora, sembrava segnare una linea continua.
Nel suo volto notai come un’espressione di sollievo , come se si congratulasse con se stesso. Senz’altro credo che pensasse che aveva visto giusto ed avesse presa la rotta corretta per evitare ed allontanarsi dal maltempo. Quasi un po’ rilassato si mise a spiegare a me ed al sig. Barletta la traiettoria che assumevano i tifoni, in quelle stagioni; cioè che nascevano circa all’altezza dell’Equatore, a Sud Est dell’arcipelago delle Filippine, si dirigevano verso Nord Ovest, per poi virare a Nord verso la Cina ed infine deviare verso Nord Est, lambendo o passando sul Giappone e perdendo man mano intensità. Il tifone che ora ci interessava, stava già alla nostra dritta, cioè a ponente della nostra posizione stimata, perciò era questione di qualche giorno e sarebbe stato a Nord di noialtri, lasciandoci liberi di proseguire verso la nostra destinazione che era Madras, in India, dove avremmo dovuto caricare Minerale di ferro; fermandoci, però, prima a Singapore per motivi logistici. Questa, diciamo, chiacchierata, ascoltata sicuramente anche dai marinai di guardia, allentò la tensione che s’era creata durante la notte ed in quelle ore della mattinata. Comunque le onde si alzavano sempre più e la nave beccheggiava paurosamente, ed il cielo era sempre coperto e non ci fu alcuna possibilità, né durante il giorno, né tanto meno al tramonto, di poter usare il “ sestante” e fare“ un punto nave” cioè dei calcoli con l’altezza del sole o di qualche stella e così conoscere la nostra posizione.
Con il giungere della notte, il vento calò un poco e quasi tutto l’equipaggio parve rinfrancarsi. La nave, però continuò a rollare in modo sempre più forte per le onde che il tifone aveva allungato ed innalzato. Era un problema molto serio spostarsi ed anche fare la cosa più semplice, diventava , a volte, abbastanza complicata . Bisognava tenersi sempre aggrappati ai passamani per potersi muovere, e non dico poi, la “fatica” quando si cercava di mangiare qualcosa. Tenere con una mano il piatto e cercare di non versare la minestra e poi i bicchieri, le caraffe, e tutto quanto che andava da una parte all’altra. Erano state sistemate delle assi di legno e poste lateralmente alle tavole ove si consumavano i pasti, in modo di trattenere, in qualche modo, stoviglie e posate. A volte si inumidiva la tovaglia perché vi fosse maggiore attrito e fermasse quello che c’era sopra.
Il lunedì ci furono continui acquazzoni, e la visibilità si ridusse a qualche centinaio di metri, tanto che durante la guardia, si restava sempre incollati al Radar che, tra l’altro, non è che l’immagine fosse tanto netta, ritornando l’eco delle onde molto alte ed i piovaschi spessi e continui. La cosa più triste era che, dal controllo del solcometro, la velocità media che si percorreva era di appena 5 miglia .Verso le dieci , dopo aver letto l’ultimo bollettino meteo , il Comandante fece cambiare rotta, e procedemmo in direzione Sud Ovest . Il beccheggio divenne ancora più accentuato e la nave vibrava tutta; a volte la prua era completamente sommersa e sembrava facesse fatica a riemergere, mentre la poppa s’innalzava sopra la linea d’orizzonte.
Nel pomeriggio fu fatta mettere della zavorra anche nelle stive n° 3 e n° 4 per circa un paio di metri di altezza. Non doveva superare la galleria che copriva l’asse dell’elica, affinchè non si creasse uno specchio d’acqua libera molto ampio, che ci avrebbe fatto maggiormente rollare. Questo fece aumentare il pescaggio della nave, in modo che durante il forte beccheggio, l’elica non fuoriuscisse troppo dal livello del mare, evitando , così, le forti vibrazioni che si manifestavano quando la poppa si sollevava. Le onde ci sollevavano come un guscio di noce e tante volte ci si inabissava in un modo terribile che quasi ci spingeva lo stomaco in gola. Per tutto il giorno si procedette in questo modo, ma non si riuscì a vedere il sole, né tanto meno al tramonto ci fu possibile rilevare una stella. Si continuò a navigare, conoscendo soltanto la velocità letta al solcometro. Venne la notte ed il vento sembrò calare un po’ , ma non si riusciva lo stesso a prendere sonno, perché gli scossoni erano sempre forti e scuotevano tutte le sovrastrutture. Mentre si era di guardia, Andrea, il marinaio più anziano, mi disse che giù, alcuni di loro dormivano nelle sale mensa e, qualcuno, anche con il salvagente addosso.
La mattina dopo, in cucina , ci andai per il solito pezzo di focaccia fresca, ma ero parecchio stanco e notai che anche gli altri membri d’equipaggio avevano le occhiaie gonfie, come se non avessero dormito ed i volti affilati dalla stanchezza, forse pure dalla mancanza di cibo, perché, con quel mare così agitato, più di qualcuno aveva cominciato a risentirne, cioè, a rimettere ed avere problemi di stomaco. Salito sul ponte, trovai il comandante col primo ufficiale chini sulla carta nautica. Il marconista aveva portato un bollettino meteo che riportava di altri tifoni. Dalla posizione sembrava che fossero ancora molto distanti, ma noi osservammo che il nostro barografo tendeva a scendere. La giornata trascorse come la precedente ma, in serata, la temperatura divenne abbastanza mite ed anche il rollio parve un po’ attenuarsi. Poco dopo le venti, con somma mia sorpresa, salirono sul ponte il 2ndo ufficiale, Sig. Pellegrino Cosimo , nativo di Sorrento, portando con sé la chitarra. Venne pure il nostromo ed il Giovanotto di Coperta, Cozzolino Fernando, un simpaticissimo giovane, sempre pronto a qualche battuta di spirito e con una voce da tenore mancato, anche lui, come il nostromo, nativo di Procida. Sul ponte c’erano, come sempre, i due marinai di guardia, Andrea al timone che cercava di mantenere la rotta e Luciano di vedetta. Ad ogni ora si davano il cambio.
Non so cosa spinse queste persone a venire sul ponte, a quell’ora, forse per scaramanzia, oppure per superstizione, o un modo di pregare e di rivolgersi a Dio, fatto sta che appena saliti, si sedettero sull’aletta di dritta, poggiando le spalle alla paratia della plancia e, mentre il secondo ufficiale cominciava a suonare la chitarra, si misero a cantare insieme vecchie canzoni napoletane ed altri stornelli, mentre noi, di guardia, a volte, ci univamo a loro .Il signor Barletta, dalla stazione radio, venne ad unirsi al gruppo, ed anche il comandante , incuriosito da questo, diciamo, baccano, si affacciò qualche minuto sull’aletta del ponte dove stavamo. Dopo circa un’ora, lasciarono il ponte, mentre noi si proseguiva sino a mezzanotte, per il nostro turno di guardia.
L’alba di mercoledì sembrava non giungere mai, tanto il cielo era nero di nubi, che correvano basse e veloci. Forti raffiche di vento sferzavano il mare; le gocce d’acqua sembravano aghi che ci pungevano il viso e gli occhi, quando ci affacciavamo sulle alette. Il barometro era sceso a 955 millibar e tendeva a scendere. Come il marconista recò il bollettino meteo , giunse il Comandante, che senz’altro era in attesa. Furono posti sulla carta nautica generale le posizioni , le direzioni di spostamento e le velocità dei primi due tifoni che potevano interessarci . Il Comandante tracciò di nuovo la rotta verso Sud, onde non incrociare la traiettoria del tifone più vicino a noi. Come si buon ben immaginare, neanche quel giorno potemmo sapere la nostra posizione.
La sera, quando alle venti montai di guardia, c’erano già, a cantare sull’aletta di dritta, il nostromo, il giovanotto Cozzolino ,il motorista Verardi, sempre accompagnati dal secondo Ufficiale con la chitarra. C’era pure il marconista, che teneva il tempo battendo una mano alla paratia, ed anche il marinaio Biagiotti, che, smontato di guardia, si era unito al gruppo.
Mi pareva che in questo modo loro volessero scaricare la tensione e l’ansia che da un po’di tempo si era accumulata nell’ animo; come se volessero sfidare gli eventi; far sapere che avremmo scapolato bene questo pericolo; che sarebbe tornato il bel tempo e la nave ce l’avrebbe fatta ancora a superare questa prova e questa tempesta e che avrebbe raggiunto come sempre, la sua destinazione; e avremmo avuto di nuovo la serenità ed almeno quella fiducia di continuare la nostra attività e, poi, finito l’imbarco, poter tornare alle nostre care ed amate famiglie.
Poco prima delle ventuno, ci salutarono e scesero alle loro cabine. La notte trascorse senza che quasi alcuno riuscisse a dormire, tali erano le rollate e le beccheggiate che continuamente si susseguivano.
All’alba, quasi non ce la facevo a raggiungere la mensa. Il cielo sempre buio. Anche il nostromo, sempre così loquace ed espansivo, dava sintomi di sconforto. Ormai tutti accusavamo stanchezza. Anche i discorsi mattutini languivano, né si raccontavano facezie o barzellette varie, che di solito rallegravano la giornata. Pure il cuoco era taciturno e pensieroso. Ognuno solo con i suoi pensieri, che senz’altro non erano allegri.
Giovedì alle otto, pian piano, salii sul ponte; vi trovai anche il Comandante, seduto su una specie di panchetto che c’era in plancia. Aveva gli occhi infossati e lucidi, come se da tanto tempo non li avesse chiusi o avesse dormito. Penso che fosse là da parecchie ore. Ogni tanto si alzava per controllare il barografo e qualche volta batteva leggermente sul vetro della cassetta che lo racchiudeva. Verso mezzodì, notammo che la sua lancetta aveva mantenuto per circa un paio d’ore una linea costante. Questo ci rallegrò un pochino.
Nel pomeriggio la pressione barometrica salì decisamente, confermandoci che il tifone ormai era nord della nostra posizione. Di nuovo si cambiò rotta, puntando verso Sud Ovest. Però solo il solcometro ed il cronometro, tenuto sul Meridiano di Greenwich ci dava una pallida idea della nostra posizione sull’immenso Oceano Pacifico.
Le ore passavano sempre uguali, con gli occhi fissi al radar, passaggio quasi continuo di piovaschi ed onde alte ed incrociate che facevano fare come delle torsioni alla nave e stare al timone era un gran lavoro perché bisognava continuamente stare attenti a mantenere la rotta, poiché l’ago della bussola sembrava non fermarsi mai. Quella sera, sull’aletta del ponte vi trovai, oltre quelle delle altre sere, ancora più gente a fumare, cantare stornelli di varie regioni d’Italia, sebbene quelli napoletani fossero più conosciuti e replicati. Come le altre sere, verso le ventuno tutti quanti si ritirarono, lasciando solo noi di guardia. Il marinaio Andrea mi raccontava che nella lunga sua vita da marinaio, mai aveva incontrato una tempesta che durasse tanti giorni. Si vedeva anche lui che si sentiva sconfortato. A modo mio, cercavo di incoraggiarlo, dicendo che presto tutto sarebbe stato solo un ricordo e questo per dare fiducia e sicurezza sia a lui che a me stesso.
L’indomani, venerdì, la giornata sembrava più buia delle precedenti. Il vento ululava come sinora non l’avevamo ancora sentito. La superficie del mare era tutta striata di bianco per l’acqua trascinata dalla forza del vento. Pareva come se tantissime strisce di innumerevoli lenzuola fossero trasportate sul livello del mare ad una velocità vertiginosa. Faceva paura solo affacciarsi; le onde ad ogni istante artigliavano e si frangevano sulle strutture della nave, mentre questa rollava e beccheggiava paurosamente e sembrava, a volte, che si contorcesse come un animale ferito gravemente. Nel breve tempo che rimasi a fare colazione ( un po’ di focaccia e qualche fetta di mortadella) notai che quasi nessuno parlò . Avevano il viso tirato, capelli arruffati, barba da giorni non rasata, occhi lucidi e come febbricitanti.
Salito sul ponte, dopo i convenevoli saluti, mi venne spontaneo andare a vedere il barografo. Dalle due , circa, aveva avuto una discesa rapidissima ed ora segnava 935 mmb. Sulla lavagna era segnata la rotta: 170° . Dopo un po’, il marconista recò il bollettino. Riportava del tifone che il giorno prima era a Sud, aveva preso una traiettoria diversa dal solito e si spostava molto velocemente verso Nord. Perciò noi , si supponeva, eravamo al limite della sua area di influenza. Per tutto il giorno si continuò così. Ben pochi andarono a pranzo ed a cena. La sera, durante la guardia, Andrea mi confidò che aveva visto e sentito di parecchi marittimi che si erano messi a pregare. Mi disse pure, che nella saletta mensa equipaggio, quattro o cinque di loro, sempre col secondo ufficiale alla chitarra, avevano cantato e stornellato, come per far intendere che non c’era da aver paura e che tutto sarebbe passato. Prima di smontare di guardia, nel riportare la rotta seguita e le condizioni meteorologiche, notai che il barografo, che si era mantenuto quasi costante per circa una decina d’ore, da qualche ora aveva ripreso a salire.
Sabato mattina, sia il vento che il mare erano un po’scemati rispetto la notte precedente. Quando salii sul ponte, trovai il 1° ufficiale Signor Gasparini più rilassato, rispetto ai giorni precedenti. Non c’erano piovaschi, e man mano si distingueva e diventava sempre più netta la linea d’orizzonte. La traccia lasciata dalla freccetta del barometro era nettamente in salita da parecchie ore. La rotta scritta sulla lavagna era diversa di quella che avevo lasciato a mezzanotte, Era di nuovo verso Sud Ovest. Ad un tratto, verso le dieci , fece capolino il sole, tra una nuvola e l’altra. Corsi subito a prendere il sestante e, volgendo spesso lo sguardo al cielo, aspettai di vedere apparire di nuovo il nostro astro principale. Non attesi molto, appena lo scorsi, fui svelto a prendere una retta d’altezza Avevo imparato a contare i secondi, tra il rilevamento dell’astro e la lettura del cronometro. Poi feci subito il calcolo. Non avevo ancora finito che salì il Comandante :
-Lesto, Carmelino, prendimi uno stop – mi ordinò.
Nel frattempo prendeva il sestante e usciva sull’aletta del ponte, pronto a prendere anch’egli una retta di sole. Dato il “ lesta” e lo stop, rientrò dandomi la lettura del sestante e subito feci quest’altro calcolo.
Quando era possibile, si continuava a rilevare il sole e si facevano i dovuti calcoli. Partendo dalle prime rette, che sembravano errate, perché davano delle posizioni tantissimo distanti da quella stimata, ma che invece erano giuste, man mano ci avvicinavamo a quella sempre più precisa.
Verso mezzogiorno, riuscimmo a prendere la meridiana. Questa ci diede la nostra latitudine e, con l’incrocio delle rette precedenti, avemmo, finalmente, la nostra posizione sulla carta nautica e questo ci permise di poter correggere e tracciare la rotta vera per il proseguimento del viaggio.
Messo poi il punto nave così ottenuto, sulla carta generale e fatti gli opportuni calcoli, con grande sorpresa constatammo che, l’occhio del tifone del giorno prima, era passato a nemmeno dieci miglia da noi. Ora eravamo nel semicerchio maneggevole della tempesta e della bassa pressione.
Nell’intimo di ciascuno ci fu senz’altro qualche preghiera di ringraziamento per lo scampato pericolo. Man mano il vento e le onde continuavano a scemare. Subito dopo il tramonto ci fu possibile prendere anche delle rette di stelle, ed avere un punto nave ancora più preciso ed una correzione di rotta più esatta.
Quando, alle venti, montai di guardia, c’erano sull’aletta di dritta ,insieme al secondo ufficiale, tante persone che cantavano e fumavano in maniera quasi spensierata.
L’indomani, domenica, eccetto il personale del turno di guardia, si lasciarono tutti liberi di fare le pulizie nei propri alloggi.
Alcuni, appassionati di cucina o di dolci, diedero una mano al cuoco, per preparare manicaretti, torte di dolci ed amenità varie.
A pranzo si presentarono tutti sbarbati, pettinati e con abiti puliti come non si vedevano da tanto tempo.
Finalmente si poteva stare seduti comodi, senza paura di sporcarsi, far cadere qualcosa sulle tovaglie e quant’altro. Ognuno gustò il cibo, ed alla fine anche la coppa di spumante offerto dal Comandante.
Poi, a fine pranzo, ci fu come un brindisi liberatorio; un ringraziamento generale, un’ovazione che sgorgò da ogni petto dopo tutti quei lunghi giorni trascorsi in quelle acque tempestose.
Un evviva per tutti e per quella nave che avrebbe sicuramente raggiunto il porto di destinazione stabilito.
La certezza che proprio quella nave, costruita in poco tempo nel lontano 1944 e con materiale non di prim’ordine ( infatti il ferro delle sue lamiere era scarso di manganese ), nata per effettuare un solo viaggio, ma che invece ne aveva compiuti centinaia e che avrebbe continuato a navigare, recando così benessere sia all’Armatore che a tante famiglie dei marittimi imbarcati.
Tutto questo riempì i nostri animi di momentanea gioia, di fiducia e di speranza per il nostro futuro.
Da uno stralcio di vita vissuta.

   Giovanni Cazzato

 

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