GIUSEPPE D’ELIA -IL COLORE RITROVATO-

Giuseppe D’Elia da sempre ha improntato la sua tecnica espressiva sulla ricerca di reperti consunti, di carte ondulate, di legni segnati da solchi su cui il tempo ha lasciato la sua traccia, di materiali e oggetti divorati dalla lebbra del passato o che evocano le impronte delle mani che li hanno lavorati o usati e perduti nel gorgo del tempo.

Andando a ritroso, nelle opere che precedono l’ultima produzione, prevalgono quasi sempre i cosiddetti  “non colori”, quali il bianco ed il nero, i grigi nelle loro infinite variazioni; un universo, quasi monocromo in cui prendono forma superfici tattili che rendono evidente la fisicità del rapporto dell’artista con la pittura improntata sull’ abbandono di ogni schema e struttura significativa(…).

Soffermandoci sull’ultima produzione dell’artista, possiamo scorgere quasi un cambio di rotta: una chiara volontà di distinguere una forma, di scorgere una figura, di trovare un appiglio di chiarezza e leggibilità.

Quante volte ci siamo fermati a guardare una nuvola cercando di scoprire nella sua forma un animale, un cuore o i contorni di un volto? quante volte abbiamo visto oggetti e forme nelle struttura amorfa di una macchia di umidità o di una corteccia d’albero.

L’innata tendenza dell’uomo a dare un significato alle cose ambigue, a dare un senso a forme che in realtà senso non hanno è  un meccanismo psichico che  l’evoluzione ha favorito per la sopravvivenza della specie e che ritroviamo nel nostro sguardo quando incontra le “macchie” sulla carta, che il nostro artista, nella sua ultima produzione pittorica, ha impresso, distribuito, incollato, scollato in maniera del tutto casuale seguendo una gestualità istintiva e cogliendo tutto lo stupore di un disvelamento rassicurante.

Agendo senza intenzione e rimuovendo dai suoi cartoni sbrecciati ciò che è celebrale, l’artista dà spazio all’imprevedibile, al suo sé e non al suo Io.

Giuseppe D’Elia attende, quasi in un rituale creativo, le “sorprese”, come le definisce, che affiorano dallo spessore delle carte aggiunte quasi a bassorilievo, dalle pieghe della carta di fondo dovute al collante, ai terreni di gioco del colore, con forme regolari, bruni, rossi, verdoni, ocre, incorniciati da neutri contorni monocromatici da cui emergono fenditure di luce assetate di senso.

Lo stesso fondale che si stratificava e ispessiva di forme, di stracci, di legni, di oggetti ritrovati, di assemblaggi, in installazioni, in composizioni informali ma sempre teso a calibrare il farsi della materia: aggiungere, togliere, alleggerire e sfumare, stare in bilico tra l’emanazione del colore e l’effetto plastico delle linee circondate da macchie come fossero ombre della luce.

Nella nuova serie il vecchio schema compositivo ruota e si ricompone, nuove cromie affiorano da fondi remoti, da densità luminose che si manifestano in misteriose figure, aprendosi ad un sistema cromatico fondato su una nuova fusione di rossi, di gialli, di verdi, di frammenti di azzurro che risplendono di una brillantezza misteriosa come se nel suo scavo l’artista avesse liberato energie segrete o lacrime di gioia, distese e assorbite sulla superficie accogliente della carta.

Si, lacrime di gioia, brillano come gioielli su scrostate tessiture, come “la luce che splende in fondo al tunnel” come dice l’artista, manifestando l’insita potenzialità della creazione, della creazione di ogni desiderio, forma, sostanza.

E recuperare la propria interezza interiore, nel segno turbolento e rassicurante del colore, aprendosi alla possibilità che il nuovo possa arrivare, che dietro ogni fine, c’è una nuova rinascita.

Il sentimento che pervade l’artista e l’emozione che si riverbera su di noi   sono densi di consapevolezza che l’arte consola, solleva ed orienta, nella sua capacità terapeutica, ”l’arte ci cura” come direbbe Tiziano Terzani, e ritrova nel colore il suo punto di forza, così come è accaduto a Giuseppe D’elia, curato e riconciliato, fisicamente e dai propri conflitti emotivi, dalla sua arte.

     Rita Fasano

 

 Amici della Di Vittorio

 

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