Il lavoro in quanto fondamento della Repubblica entra nel dibattito presso la Costituente sin da subito.
E’ famosa la formula proposta da Togliatti secondo il quale, benché concordasse con il principio costituzionale secondo il quale “Il lavoro… è il fondamento della democrazia italiana “ chiedeva che, “con una espressione giuridica più concisa” venisse accolta la formula “Lo Stato italiano è una Repubblica democratica di lavoratori”. La proposta in prima battuta, messa ai voti fu respinta con 8 voti contrari e 7 favorevoli.
L’On.le Moro dichiarò che “tutti concordano sulla necessità della specificazione <<Repubblica Democratica>> ma non ci si può nascondere che l’indicazione proposta dall’on.le Togliatti potrebbe apparire alla pubblica opinione come una affermazione di una particolare ideologia, di uno speciale partito.” Tuttavia, avuti i chiarimenti resi dai successivi relatori, dichiarò che avrebbe votato a favore della proposta di Togliatti.
Molto più diretto fu l’on.le Grassi (liberale poi Ministro di Grazia e Giustizia nel IV Governo De Gasperi e firmatario della Costituzione come Guardasigilli) il quale nel dichiarare che avrebbe votato contro la proposta Togliatti, affermò che “ essa verrebbe a dare alla Costituzione un carattere classista”.
In realtà Togliatti, nel formulare la sua proposta, (che poi nel prosieguo del dibattito si arricchì della precisazione di “lavoratori del braccio e della mente”) precisò che egli non intendeva restringere “il concetto di democrazia, ma specifica(va) il contenuto sociale della democrazia stessa”.
Egli intendeva affermare un nuovo tipo di democrazia che avesse il proprio fondamento nel lavoro, “nelle sue diverse manifestazioni, e sostituisce alla democrazia a base individualistica una democrazia di lavoratori intendendo per lavoratore colui che converte la sua attività patrimoniale, intellettuale o manuale in un bene sociale, mediante «il principio dell’intervento dello Stato per regolare l’attività economica, secondo un metodo, un corso differente da quello dell’economia capitalistica liberale pura; soltanto facendo questo passo, si può dare un minimo di garanzia al diritto ai mezzi di sussistenza, al lavoro, al riposo, alla assicurazione sociale» (Cfr. Prima commissione della Costituzione, seduta del 3 ottobre 1946)
Nel bilanciamento delle forze in campo, l’articolo uno della Costituzione, infine, acquisì la formula che conosciamo “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
La formula proposta da Togliatti non passò ma certamente il principio di diritto secondo il quale il lavoro è il fondamento della Repubblica italiana contiene l’idea da egli sostenuta secondo la quale il lavoro era il discrimine tra due modelli di società: quella precedente alla Lotta di Liberazione e quella successiva di cui si cominciavano a porre le fondamenta.
D’altra parte, la distinzione tra il concetto del lavoro inteso come fondamento della Repubblica e il lavoro inteso come diritto è del tutto agevole rilevarla solo leggendo il successivo art. 4 della Costituzione.
Come è del tutto intuitivo immaginare, il percorso ed il confronto democratico tra i Costituenti, anche in questo caso, fu di altissimo livello in termini di qualità degli interventi.
Dopo aver stabilito che il lavoro era il fondamento della Repubblica, segnando quindi un confine tra una idea di società dai forti connotati individualisti e nazionalisti e che aveva caratterizzato la prima parte del ‘900 come il secolo delle guerre mondiali, con un altro progetto di società fondata sulla solidarietà e sul lavoro come elemento di esercizio concreto della democrazia, nel senso che solo il lavoro libera l’uomo dal ricatto del bisogno, i Costituenti introdussero anche il principio solidaristico del dovere di concorrere, proprio attraverso il lavoro, al progresso materiale o spirituale della società.
Tuttavia loro ebbero ben chiaro il pericolo di apparire come i demagoghi di turno che lusingano il popolo.
L’intervento di Di Vittorio, sul punto, è davvero illuminante.
Egli ribadì il principio che la Costituzione “segna una tappa storica nella vita di un popolo”; che lo proietta “nell’avvenire come un progresso”; che con molta chiarezza deve affermare “il diritto al lavoro dei cittadini”; e che “affermare il diritto al lavoro deve significare un impegno che la società nazionale, rappresentata dallo Stato, assume di creare condizioni di vita sociale tali che il cittadino possa avere lavoro.” (cfr. 9 settembre 1946 la terza Sottocommissione della Commissione per la Costituzione comincia a trattare il tema del dovere sociale del lavoro e diritto al lavoro partendo da una relazione dell’onorevole Colitto)
Da grande dirigente sindacale affermò che “la Confederazione generale del lavoro non chiede allo Stato sussidi, ma chiede che si creino condizioni tali da dare lavoro ai disoccupati.”
Dava così, Di Vittorio, la visione plastica e concreta di ciò che doveva essere la società nuova figlia della Resistenza fatta di cittadini non più asserviti ma emancipati grazie alla forza di liberazione insita nel lavoro.
Quanto il legislatore ordinario abbia, nel corso degli anni successivi, realizzato del dettato programmatico costituzionale è sotto gli occhi di tutti.
Noi oggi non siamo altro che il risultato della stratificazione della azione antropologica attivata nel tempo vissuto da ognuno di noi e di quelli che ci hanno preceduti.
Le celebrazioni della Festa del Lavoro continuano con i concertoni e con quelli alternativi; si trova molto più facile erogare sussidi invece che realizzare politiche industriali che possano coniugare sviluppo e ambiente; il lavoro rimane la principale aspirazione di milioni di giovani disoccupati, e quelli fortunati che il lavoro ce l’hanno continuano a vedersi sfuggire i diritti come quando si stringe in mano un pugno di sabbia.
Mesagne 1 maggio 2020
Carmelo Molfetta
www.divittoriomesagne.it
Commenta