Una ragazza poco più che ventenne di nome Vittoria si trova al capezzale della madre ricoverata perché ha improvvisamente e inspiegabilmente perso la memoria. È l’estate del 1982, quella dei Mondiali di calcio in Spagna, dopo una stentata qualificazione gli Azzurri hanno avuto un ruggito inaspettato battendo l’Argentina, di lì a poco il trionfo: prima il Brasile, poi la Polonia, infine la finalissima con la Germania sotto lo sguardo vigile ed entusiasta del Presidente Pertini. A questa atmosfera euforica e inebriante che invade tutto il Paese, fa da contraltare la condizione di angosciosa tensione che vivono le due donne in una stanza di ospedale, con la figlia che tra angoscia e rimpianti tenta di rianimare la madre, utilizzando, come suggerito dai medici, parole che attingono al pozzo dei ricordi e si aiuta con una foto che ritrae la famiglia vent’anni prima, un’immagine che sembra distogliere per un po’ la madre dal torpore.
È attorno a questa foto, che Giuseppe Lupo, autore lucano, originario di Atella, professore di Letteratura contemporanea all’Università Cattolica di Milano, costruisce un romanzo struggente e malinconico, “Gli anni del nostro incanto” – Marsilio Editore, che sarà presentato giovedì 7 dicembre alle ore 18,00 nell’Associazione Di Vittorio di Mesagne, alla presenza dell’autore che dialogherà con Fernando Orsini.
La fotografia che è anche la copertina del libro è stata scattata negli anni’60 e pubblicata sulla rivista Gioia e ritrae a loro insaputa una famiglia, tuttora anonima, in sella ad una mitica Vespa nel centro di Milano. C’è il padre con sguardo fiero che tiene davanti il figlio maggiore con le mani sul manubrio, la moglie sul sedile posteriore seduta di lato, gambe tornite, un toupet morbido con qualche ciuffo ribelle, tiene in mano una piccina di neanche un anno, dietro nel portapacchi un mazzo di fiori.
È un’immagine simbolo che riassume i sogni, le speranze, le aspettative di un’Italia che crede nel futuro. Giuseppe Lupo dà una storia a questa famiglia, l’operaio meccanico Luigi detto Louis venuto dal Sud per “essere all’altezza di quegli anni alti”, la parrucchiera Regina di origine veneta, il figlio Bartolomeo detto Indiano in omaggio ai condottieri Apache nel film Ombre rosse, la piccolissima Vittoria, l’ultima nata. La famigliola, inebriata dal vento primaverile, va a festeggiare al Bar Motta, vicino al Duomo, il decimo anniversario di matrimonio.
Vent’anni dopo, Regina è rimasta vedova, il figlio Indiano si è smarrito nelle ombre degli anni di piombo, attraverso le parole di Vittoria alla madre e a sé stessa conosciamo la storia della famiglia.
Negli anni del boom, in una Milano “sbarluscenta”, Louis il figlio del calzolaio di un paese lucano si è perfettamente integrato, ha accettato la sfida della modernità e vive l’emigrazione come un’opportunità per sé e la sua famiglia, è attratto dai satelliti, macchine misteriose, simbolo del progresso tecnologico, che lui vede come una realtà “atomica”, un aggettivo utilizzato per tutto ciò che lo entusiasma. Regina è una madre lavoratrice e indipendente che sa tenere testa al marito e mantiene la saldezza della famiglia. Dai ricordi di Vittoria riprendono vita Yuri Gagarin, idolo sovietico del padre, il dottor Zivago che colpisce la madre con la figura di Lara, lo sbarco sulla luna, le vittorie di Gustav Thoeni, le sfide pugilistiche di Nino Benvenuti, i biscotti al Plasmon, la colonna sonora di quegli anni con Mina, Celentano, Gaber. In famiglia arrivano la lavatrice, il frigorifero, la cucina Salvarani, la Vespa, poi la Cinquecento, i simboli del boom nazionale.
La favola dei migliori anni però a un certo punto finirà, il figlio della coppia è un ragazzo introverso e scontroso con cui il padre non riesce a entrare in relazione, la sua inquietudine lo porterà prima in seminario e poi nelle frange del terrorismo, Louis rimarrà immobilizzato da un ictus che lo porterà via prematuramente, l’incanto dell’Italia del boom finirà con la strage di Piazza Fontana nel ’69, seguirà la stagione della disillusione: la triste età dell’austerity dovuta alla crisi petrolifera, la violenza politica degli anni di piombo.
È un romanzo prezioso quello di Giuseppe Lupo dove la microstoria si intreccia con la macrostoria, aiuta a capire le dinamiche e le variabili che hanno accompagnato il vissuto dei nostri genitori e nonni, emergono snodi cruciali: il rapporto conflittuale tra padri e figli, la distanza tra Nord e Sud, ma anche il contributo decisivo dei meridionali alla crescita del paese, il divario tra 2 stagioni diverse, gli anni sessanta e quelli della vittoria del Mondiale, che sembra voler chiudere con la stagione degli anni di piombo per aprire una fase che porterà poi alla Milano da bere, all’avanzare della corruzione, alla nascita di Mani pulite e della seconda repubblica.
“Gli anni del nostro incanto” è un libro evocativo e delicato, scritto con stile sobrio e fluido, un filo rosso unisce i brevi capitoli che terminano con una locuzione che dà il titolo al capitolo successivo. È un romanzo nel quale la memoria che costituisce il tema portante della narrazione è alla fine ricondotta sulle due figure femminili rimaste sulla scena, la madre che ha smarrito sé stessa, simbolo di un’Italia che ha perso la sua memoria e la figlia, io narrante della storia, che riempie i vuoti, il silenzio, recupera l’identità attraverso la dignità di un’istantanea, “un attimo che ha la forza di uscire dal pulviscolo del tempo e rimanere per sempre”.
Giovanni Galeone
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